Galleria Silvy Bassanese, Biella - Vernice [6 marzo 2010]
Abbiamo vissuto la rivoluzione dei trasporti, poi quella della trasmissione. La terza, in corso, è quella dei trapianti, cioè la possibilità di microchip a radiofrequenza, impiantati non solo sugli oggetti, ma anche nel corpo dei soggetti. A quel punto la questione della tracciabilità supera definitivamente quella dell’identità, nazionale o altra che sia. Televisione e radio consentono di avere la città in casa, a dimora. Con la rivoluzione delle trasmissioni, il cellulare, il computer, le reti, che ci permettono di essere connessi in permanenza, portiamo la città su di noi. Domani, con questi trapianti, l’avremo dentro di noi…Per questo motivo propongo, accanto alle nozioni di soggettività e oggettività, il termine transitività…Sì, infatti tutti gli uomini che si spostano sono costantemente connessi… Si verifica una tirannia dell’istantaneità che azzera la storia, intendo dire che annulla passato, presente, futuro. Tutto si gioca nell’accelerazione dell’istante, nell’accelerazione del tempo reale, e non più nell’accelerazione della storia come passato, presente futuro... Il progresso è stato una realtà. Nel XX secolo è divenuto una propaganda attraverso la bomba atomica, le grandi catastrofi, Chernobyl, etc. Non c’è stato che Auschwitz, ma Hiroshima, Nagasaki e Chernobyl... Non sappiamo interpellare il movimento che non sia quello della fuga in avanti. Il progresso altro non è che questa fuga in avanti.
Oggi abbiamo superato l’anno duemila, in cui ritorna una nuova barbarie, la catastrofe del progresso. È il progresso che rende la terra inabitabile, non soltanto in quanto contrazione, come per le doglie del parto, in quanto riduzione della terra a qualche istante, ma anche come inquinamento delle essenze e crisi delle conoscenze.
Nell’opera di Ernesto Jannini la vita, la casualità, il quotidiano, la deperibilità dei materiali naturali, depositi di memorie abissali di oggetti e soggetti ancora umani, tendono a coniugarsi, a partire dal 1988, consciamente o inconsciamente, con la meccanica e l’elettronica, superfici di memoria senza biografia, circuiti stampati di geometrie labirintiche, attraversati da bagliori ramati, bagnati da vernici verde smeraldo: sull’intero scenario piove la luce azzurrina, fredda, del neon. Così nascono, nel 1990, i suoi Nidi di rondine. Così si formalizza la sua visione, fisica e metaforica, di possibili migrazioni nostalgiche verso terre altre, altri cieli, dove la vita dell’arte, l’arte della vita, possono liberare insospettabili energie, canti inauditi, tutti i cromatismi dell’immaginario.
Questo paesaggio dell’ibridazione, costituito da microchip, hardware, relais, isolatori in porcellana, accumulatori, cavi elettrici, bobine, è la mise en abyme della memoria di un caos, una sensorialità, un calore, originariamente mediterranei, che riemergono da un’incrinatura, una sbavatura, un interstizio, un allentamento di tensione. Il connubio di ideologie, culture, Weltanschauung, che sottende alle sue opere, è evidente, come ne è evidente la soluzione estetica di segno poetico-archetipico, di cui si fanno portatrici. D’altronde, sottoscrivendo una logica dell’ambivalenza, della convivialità delle differenze, della compossibilità dei contrari, teorizzata da Edgar Morin, nel suo lavoro convivono razionalità ed emotività, nella forma dell’intelligenza emotiva. Nel luogo in cui si consuma un’attrazione fatale tra la foresta naturale e la foresta elettronica, tra il vissuto di forme e materie organiche e l’inossidabilità di protesi e strutture artificiali, il cortocircuito è sempre alle soglie, a significare, sul terreno dell’opera d’arte, il rischio che l’artista non cessa di correre, provocare, cercare. Ernesto Jannini ha una storia trentennale di opere e di pensiero, che, a sua volta, ha innescato, nella molteplicità e spessore culturale dei suoi interlocutori, una storia di sguardi, interpretazioni, reazioni, letture. Le sue interazioni più intense e partecipate sono avvenute sull’area della filosofia, dell’architettura, della storia e critica d’arte, della scienza, della letteratura e del cinema, dell’archeologia e paleontologia, dell’arbitrato calcistico, della didattica, dell’incontro con gli amici artisti degli anni Novanta, con il pubblico, con la grande musica, che è componente sotterranea e fondamentale della sua opera. È impossibile tacere, tuttavia, il fatto che i suoi oggetti e soggetti scenici non eserciterebbero la seduzione di una sensualità barocca, iscritta nel rigore algido di una struttura concettuale, di un Minimalismo in sinergia con il design, e illuminata da una luce metafisica, se l’artista non avesse calcato per anni le scene teatrali, da attore partenopeo quale è stato, inconfutabilmente segnato dalla classicità greca, insita nel suo DNA. Non è infrequente, in opere come Panchina Cavour, Notturno con cappello, Notturno con tazzina, qualche irruzione, onirico-scenografica, nel surreale. Una palestra di pensiero, una capacità di concentrazione, di azione e meditazione, la sua, che si gioca nella velocità dei riflessi, degli esercizi di equilibrio , in cui la reazione fisica accade in simultaneità con quella mentale. Dalla frequentazione della piazza degli anni giovanili, dalle sue derive situazioniste, dalle mappe delle sue passeggiate psicogeografiche, scaturisce il rapporto con l’alterità, la solitudine e l’interiorità, la disciplina nell’osservare o spezzare il silenzio. Davanti a una sua mostra, la sfida è scoprire il segreto dell’opera, localizzarlo per aggirarlo, avvertirlo esteticamente senza necessariamente rivelarlo, ma parlarne l’aura, se resiste, il contesto, le relazioni tra interno ed esterno, gli effetti sull’osservatore. Jannini mette l’opera non solo sulla scena, incarnando il suo destino di esponibilità, ma sui banchi del Mercato, là dove la qualità entra in concorrenza con la quantità, là dove il suo valore diventa prezzo, dove la sua unicità diventa ripetizione, la sua oggettualità diventa feticcio; gesto questo di grande provocazione a se stesso, in primis, e poi ai suoi estimatori o detrattori, venditori o acquirenti. Il Mercato da sempre è il punto di incontro tra la domanda e l’offerta, è il luogo dello scambio o dello scontro, sia fisico che metaforico. Gran Mercato, titolo di segno forte, è, nell’ipotesi dell’artista, anche quello delle idee, della fibrillazione generale, scaturita a partire dalla globalizzazione fino alla manipolazione genetica. Il mutare dei suoi materiali, la commistione di organico e inorganico, riflette, nel suo iter operativo, la scelta di vivere al presente, tenendo ferma la memoria del passato, interrogandosi sul futuro, non cessando di mettersi in questione. Davanti a una serie di cassette di plastica azzurra e arancio, dove sono allineati, quasi militarmente, pomodori simulati, che ostentano oscenamente la loro perfezione, la loro maturazione, il loro ineccepibile maquillage di cadaveri squisiti, deposti come uova aliene sul ripiano di un circuito stampato, il primo impulso è di un senso di deprivazione, di perdita irrimediabile di un succoso, profumato, frutto di natura. Ernesto Jannini con questa mostra ci confronta con un’estetica della sparizione, che ha trovato in Baudrillard e Virilio i suoi teorici più radicali, dove ciò che sta per sparire è la realtà. O forse è già sparita, come si insinua in qualche testo fantascientifico o nel cinema, grande riserva dell’immaginario collettivo, e noi non saremmo che la memoria di noi stessi, esseri residuali che passano in rassegna le immagini, i nomi, i concetti, con cui hanno rappresentato il mondo, duplicandolo in segno.
Si percepisce, nell’opera di Ernesto Jannini, l’attrazione verso lo sconosciuto, l’inconoscibile, o forse anche la tentazione di navigare pavidamente i canali immateriali della tecnologia estrema, per misurarne l’inconsistenza ed il nonsenso, per ritrovarsi, infine, solidamente ancorato al suo universo sostanziale e poietico.