Edizioni Christian Marinotti, 2016
Il mondo dell’hardware che è utilizzato da Ernesto Jannini appartiene all’universo della citazione. La ferramenta di cui sono composte le sue opere sono metonimie della logica tecnologica contro cui l’artista prende posizione. La logica cartesiana è esposta attraverso un suo possibile terminale, la macchina elettronica appare vivisezionata e “scoperta” in quelle che sono le sue interiora. E se è chiaro che l’artista si ritrae nel suo osservatorio romantico di cui giudica follia la geometrizzazione dell’intelligenza e altresì chiaro, come ha messo in luce Gabriele Perretta parlando dell’artista napoletano, che anche il dubbio cartesiano appartiene alla stessa filosofia. La decidibilità della posizione rimane sospesa. Il processo “decartesiano” resta in bilico tra denuncia e ammirazione, il ritratto del filosofo francese che occhieggia dalle opere sembra più un omaggio che un bersaglio. In ogni caso l’elettronica di Jannini è specchio di un pensiero che si vuole combattere, che l’arte vuole ignorare per continuare ad essere se stessa. Le macchine che sono ferme, non sono tali. I loro intestini esposti alla pubblica fede sembrano affermazioni di regale nudità. L’artista non affronta dal di dentro il rapporto arte-macchina elettronica preferisce andargli attorno da un’ideologia altra senza scendere sullo stesso terreno. In questo vi è del timore: è come la storia che per vincere il videogame bisogna perdere la battaglia con la macchina elettronica uniformandoci ad essa. L’artista si sottrae all’abbraccio mortale adottando la strategia del ragno. Dopo l’amplesso vuol continuare a vivere e quindi fa sopravvivere la macchina nella sua forma di spoglia mortale.
L’arte torna ad investigare i cimiteri e non a caso un’opera di Jannini s’intitola Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Ha scritto l’artista “Dove c’è l’arte, anche l’arte della scienza, è presente un elemento di necessità che può essere considerato fondamentale e costitutivo d’ogni messaggio o teoria. Purtroppo l’aspetto inquietante di molti messaggi, lanciati dai media o da altri generatori di cultura, sta nel fatto che essi affondano le radici nel regno della non-necessità. Perfezione tecnica dei media e non-necessità costituiscono una tipica dissonanza del nostro tempo”.(1)
L’artista identifica l’elettronica con i media e ne mette in discussione l’effimera necessità, che questi inscenano. Sembra che auspichi che la perfezione tecnica sia messa al servizio dell’umanità di cui gli artisti sono i difensori, ma si pone un problema di possesso dei mezzi di produzione. Se gli artisti non possiedono questa perfezione tecnica rischiano d’essere in ogni modo eterodiretti, di rimanere ai margini di una tecnica che è una necessità domestica. Il giudizio dell’arte in questo caso si pone in posizione d’alterità assoluta, di una critica senza possibilità di replica. Il rapporto artista-macchina muta in senso negativo: il mondo dell’elettronica si allontana spinto dalla leggerezza di chi lo adopera in chiave spettacolare e consumistica. La responsabilità umanistica dell’arte lo condanna respingendo la tecnica su cui si poggia e senza cercare di appropriarsi del suo potenziale comunicativo.
Il problema è che le macchine elettroniche non si vedono. Se Jannini le “apre” e rivela il suo interno lo fa con uno scopo estetico ben preciso. Il suo gesto ha il valore di un aruspice che fruga fra gli intestini della vittima sacrificale. Il problema consiste nel cercare il rito laddove non è richiesto. Le risposte le dà la stessa macchina che si cerca d’immolare sull’altare dell’arte perché la macchina elettronica non si vede, ma si vive. L’era elettronica presuppone il dialogo costante tra tutti i partecipanti allo scambio d’informazioni, computer compresi. Bisogna parlare, trovare le parole in una società linguisticamente fondata. L’esposizione della macchina aperta come un trofeo beffarda è piacevole come l’arte degli anni ottanta ha cercato (con successo) di essere.
(1) Ernesto Jannini, catalogo della mostra Silos Silenzio, Studio Noacco, Chieri, 1991