Testo in catalogo Antologica al Castel dell’Ovo di Napoli [2009]
La ricerca artistica italiana ha sempre affrontato con una certa timidezza il problema del pensiero e del suo rapporto con il linguaggio artistico, e quindi con tutte le forme spontanee o volutamente organizzate di espressione e di comunicazione interindividuale. Forse, il suo punto di par¬tenza è stata una inibita sperimentazione di laboratorio, che le ha fatto trascurare per un certo tempo gli aspetti personali e sociali più complessi della condotta artistica. Molto spesso in campo artistico si parla di un fare astratto, che non ha nessun contatto con ciò che effettivamente diviene risultato di una sperimentazione, e quindi si è propriamente lontani dalla realtà dell’artista in quanto pensiero-uomo e storia biografico-poetica. Ora, però, si sente da molte parti l’esigenza di definire non solo le posizioni che le varie correnti artistiche, facenti capo a vecchi e nuovi ricercatori, consentono di assumere nei riguardi di varie questioni di tale importanza, ma anche la necessità di raccordare il percorso lungo e tortuoso, ampio e variegato che operatori particolari, come Ernesto Jannini, hanno attraversato lungo l’arco di trent’anni e passa di attività! Non è infatti possibile una compiuta concezione artistica e della sua inerenza nella società, se non si affronta il problema delicato degli aspetti direttivi che scorrono tra opera e territorio e della particolare unificazione di comportamento analizzabile a partire dall’humus linguistico ed antropologico dentro al quale si è calati.
La chiarificazione del peso che hanno i vari linguaggi, e in particolare quello visivo, con tutta la sua potenza strutturante e operativa, nello sviluppo totale della vita, dell’opera e della dinamica poietica del percorso di Jannini, parte da Napoli e giunge al sistema contemporaneo. Tendo a dire così, perché una città antica come Napoli, potrebbe essere già il confronto diretto tra memoria storica e urgenze del presente. Personalmente, ho avuto modo di scrivere di Jannini e di occuparmene per la prima volta nel 1990, in quel periodo in cui l’artista napoletano già trapiantato a Milano, era stato segnalato da Renato Barilli ad Aperto ’90, in una sezione freschissima della Biennale di Venezia(1). Chi scrive invece in quello stesso periodo, e forse già da qualche anno prima, andava teorizzando una solida fuoriuscita dalla situazione debole (o debolistica) e post-modernista italiana, con un’arte post-concettuale e appropriazionistica che esprimeva i ritagli più maturi di quello che poteva chiamarsi Medialismo. Diciamo che Jannini, in maniera singolare, si è sempre trovato tra l’urgenza dell’una e dell’altra sponda, giungendo autonomamente al rapporto armonioso tra lo stato simbolico dell’arte (che riflette su se stessa) e l’arte che invece stimola “l’ambito scientifico e tecnologico”. Ovviamente, mi sembra che quest’ultima estrazione non abbia nulla a che fare con la retorica vetero-futurista italiana. Come si giunge, quindi, in Jannini dal laboratorio napoletano diretto dalla “sperimentazione dalisiana” a quello attuale degli “equilibridi”? In effetti, nel pamphlet-libro d’artista(2) - in cui lo stesso Jannini risponde, purtroppo a distanza di anni, a tutte le esperienze autobiografiche ed artistiche in cui si è trovato a partecipare - si dimostra che la sua formazione viene da molto lontano e che per l’appunto non solo si incontra con le ascisse e le coordinate post-cartesiane degli “equilibridi” ma che propone, per accelerare e integrare lo sviluppo spontaneo della concettualizzazione artistica, una inizializzazione tra estetica e scienza, di taglio pre- e post-illuminista.
Poc’anzi osavo indicare che mentre mi è capitato di scrivere di Jannini nell’anno delle “Decartesiane” allo Studio Noacco, non fu certo quello il periodo in cui mi imbattei per la prima volta nella sua lunga attività artistica! Reintroducendo un tratto assolutamente autobiografico, ed essendo anch’io figlio di quella dea partenope che ha prodotto la cosiddetta “filosofia del rotto” (tanto amata da Alfred Sohn-Rethel), ho cominciato a sfiorare il nome e il lavoro di Jannini in quel clima stuzzicante della Napoli degli anni Settanta, in cui lo spirito partenopeo si mischiava con “l’arte sociale di base”, il teatro della neo-avanguardia di Leo, Perla, Giuseppe Desiato, La Libera Scena Ensemble, Il Gruppo degli Ambulanti e gli ultimi vagiti della performance sonora, verbo-visiva, ambientale e site specific della social art ante litteram. Della maggiore o minore efficacia dell’origine del contesto artistico napoletano, che cerca di destare gli aspetti coscienti dello strutturarsi del proprio pensiero e del proprio procedimento di lavoro, ovviamente possono decidere soltanto gli esperimenti e le verifiche oggettive sul campo. Qui però voglio ancora sottolineare, a proposito del problema della coscienza di un luogo di formazione, più che di un luogo d’origine, che Napoli così come impavidamente rappresenta una scuola di pensiero, raffigura anche una “école de fuite et de désespoir”, che insegna ai suoi figli ad abominare ed a farsi esecrare per il troppo conflitto che Ella stessa promana e trasuda, sia nelle sue inquietudini di vivezza che in quelle che ritraggono - ormai da troppi secoli - solo verdetti di morte. Per comprendere ciò bisogna calarsi nella situazione della Napoli politica ed amministrativa di oggi, quella della malavita globale ed infinita che non ha bisogno “di realismi olografici e para-letterari gomorriani” per ritrarre le dinamiche più acute del disastro. E forse c’è da inserirsi – senza alcun profetismo - in quella di domani che ormai appare senza civiltà e senza futuro, condizionata dal malaffare della res pubblica e dalla minaccia continua di falciare qualsiasi forma di progettualità.
Senza dilungarsi troppo la mostra di Ernesto Jannini, che avete sotto mano e che magari vi apprestate a visitare nei suggestivi spazi del Castel dell’Ovo, è stata una vera e propria dolorosa avventura! Nonostante i luoghi della città di Napoli sono del tutto mitici, è sempre difficile accettare il confronto fra il passato e il presente della “grande ville” partenopea. Ad esempio Castel dell’Ovo potrebbe essere un vero sito di eccellenza, essendo nato sull'antico isolotto di Megaride(3). Ma spesso il sito del mito si trasforma nel sito della crisi e della negligenza di fare e di produrre cultura! Si dà il caso che Jannini ha avuto ed ha espresso negli anni un rapporto di odio e amore con la cultura napoletana e con gli oggetti ovoidali che mostrano dei tagli e delle spaccature in grado di esporre il loro interno non più naturale, ma propriamente artificiale. Sarà questa di oggi una domanda che Jannini pone al suo inconscio sognatore di artista napoletano e di ricercatore degli antri e delle isole originarie? Oppure sarà questa una premonizione per capire e mettere le mani avanti sul fato di una città assolutamente tormentata e continuamente bistratta dai suoi stessi abitanti che nell’esperienza artistica mostra la crisi definitiva del suo destino culturale e politico? La verità è che l’organizzazione di questa piccola antologica di Jannini non è stata cosa facile ed eseguibile con un lineare contributo amministrativo. Perché è proprio nell’organizzazione e nella politica culturale delle cose che Napoli mostra una deficienza permanente, direi un “cronicario” che nell’attuazione delle cose si eroga come un “incidente” (per dirla sempre con Sohn-Rethel letto da J. Baudrillard).
Ernesto Jannini è nato a Napoli il 22 ottobre del 1950, vicinissimo al Bosco di Capodimonte(4). Ebbene, Jannini dopo aver presentato al Comune di Napoli per circa due anni un progetto per realizzare una grande mostra che coronasse la sua attività e il suo rientro nella città, si è trovato con un pugno di mosche nelle mani. Il Comune in preda ad una crisi economica che risale ad altre realtà, ben più gravi, gli offre la superficie espositiva e lo abbandona al suo destino. A Napoli, come del resto in qualsiasi altra città d’Italia, sponsor e finanziamenti a pioggia (anche grazie alla saggezza della sinistra organizzatasi come una macchina per il suicidio della popolarità e della sfera pubblica) sono ormai idonei solo per gli artisti accreditati dal mercato, che hanno sostituito alle orge del presepe natalizio le maree e le profusioni della public art internazionalista e globale. Quando si presenta l’occasione di curare artisti particolari della città di Napoli, il city-manager partenopeo risponde con un mucchio di giuramenti e di programmi insolenti e confusi, specchio delle condizioni amministrative in cui versa la città. Ma se si guarda con attenzione alle opere attuali di Ernesto Jannini, si può capire che rapporto avrebbero avuto e all'incirca hanno ancora con la “progressione della cultura napoletana” e con l’immagine di Napoli in generale. Napoli è uno scoglio duro nella cultura artistica italiana, da sempre essa rappresenta un’oasi e un’eccezionalità, così come riproduce un limite e uno spazio della catastrofe. Detto ciò è facile ricordare che sono tre gli elementi che contraddistinguono un artista napoletano da un altro artista della scena internazionale! Il rapporto con lo spazio e l’ambiente, la filosofia del rotto (come la chiamava Alfred Sohn-Rethel)(5) e la teatralità iconografica e iper-simbolica dello stesso lavoro artistico che indica la differenza della scrittura visiva mediterranea. Provando a spiegare i primi elementi di questo discorso, è facile capire quanto la socialità di questa poetica è calata in una dimensione collettiva del linguaggio estetico e quanto esso lavora in maniera sotterranea al confronto con la filosofia del territorio. Anzi, c’è di più, a Napoli il linguaggio artistico individuale rispecchia – ininterrottamente - un umore ideale della società in cui esso stesso è espresso. Napoli anche quando non parla di se stessa, attraverso la lingua degli uomini (come direbbe Walter Benjamin), parla un idioma che è il dialetto senza nome e senza autore dell’intera metropoli. Nelle espressioni del singolo a Napoli vi sono le espressioni del popolo e della gente che si ritrova negli spazi dell’argot artistico pubblico. Oltre a ciò, se si pensa al percorso di E. J. si può dire che Napoli, come sostiene da sempre uno scrittore come Ermanno Rea, è una scuola di vita spontanea. Possiamo provare subito a vedere perché se parlando del momento formativo di Jannini ricordiamo: la didattica di Dalisi, il teatro di Gennaro Vitiello (e quindi la maieutica grotowschiana e l’esperienza di ricerca degli Ambulanti). Dopo gli anni del Liceo Artistico Jannini frequenta la Facoltà di Architettura situata in palazzo Gravina e lì si imbatte nei corsi di Aldo Loris Rossi e in quelli di Riccardo Dalisi. Dell’autore dell’Edificio residenziale in via San Giacomo dei Capri, del Complesso parrocchiale di Santa Maria della Libera a Portici, o della celebre Casa dei lavoratori portuali, Jannini assorbe la lezione organicistica e invece del progettista (insieme a Capobianco e Pica Ciamarra) del Palazzo della Nuova Borsa Merci, del tavolo smontabile (anni Sessanta) e del fondatore del movimento dei Global Tools (pura espressione del Radical design), assorbe il rapporto tra esperienza artistica ed antropologia. In particolare, la didattica di Dalisi per Jannini diviene un punto di riferimento prezioso. Dalisi con la realizzazione di opere di riqualificazione del Rione Traiano, che sfruttano la cooperazione con gli artigiani locali, reinventa una maniera di realizzare opere d’arte che non hanno nulla a che vedere con la critica partecipazionistico-sociale che è stata spesso inquadrata con il populismo vetero-comunista e stalinista tutto interno alla politica culturale di discendenza togliattiana(6). Jannini invece sviluppa il suo umore comunicativo nella frequentazione dei gruppi coordinati da Dalisi per sperimentare nuovi modi espressivi, confrontarsi con una vera messa in discussione dell’identità dell’autore, penetra con coraggio nei quartieri del sottoproletariato della periferia e dà inizio, insieme al famoso architetto potentino, ad un laboratorio creativo basato sull’utilizzo di materiali poveri e su una tecnica poveristica che non ha niente a che vedere con l’area torinese influenzata dalla process art e dall’anti-form. Non a caso, il libero percorso di Dalisi nel 1979 confluisce nella progettazione della caffettiera napoletana commissionata da Alessi, che vince anche il Compasso d'Oro nel 1981. Jannini grazie a Dalisi entra in contatto con il regista teatrale Vitiello, nutrendosi ben presto della preparazione degli spettacoli della Libera Scena Ensemble. Nel 1971 la Libera Scena Ensemble sta preparando “K” di Edoardo Sanguineti, e poi nel 1973 presenterà l’Urfaust da Goethe e La struggente morte di Empedocle sull’Etna, che narra la vicenda autobiografica e tragica del grande poeta tedesco originario del Lauffen, Holderlin. Nel Teatro Laboratorio di Torre del Greco, Jannini insieme a Silvio Merlino et altri, impara a fare l’interprete, l’attore, ripetendo poi l’esperienza ne Il Matrimonio di Interesse di F. Garcia Lorca andato in scena al Teatro Tasso a Sorrento. L’esperienza del teatro per Jannini rimane fondamentale, basta guardare i suoi cataloghi e la struttura architettonica rappresentativa delle sue opere. Lavori che sono tutti legati ad una relazione diretta con la figura umana e spesso lui stesso li indossa o ne diventa parte integrante. Napoli fa meditare meglio sull’interiorizzazione di uno dei pensieri teatrali di K.S. Stanislavskij: “Imparare ad amare l’arte in voi stessi, e non voi stessi nell’arte”. Pensando al tirocinio della società teatrale napoletana-pubblica, viene in mente la frase di D. Diderot tratta da Les deux amis de Bourbonne: “Tel meurt obscur, à qui il n’a manquè qu’un autre théâtre”.
Parallelamente al teatro Jannini utilizza materiali poveri con l’obiettivo di non andare nella direzione dell’anti-form, ma per progettare un tipo di installazione che confluirà nel Gruppo degli Ambulanti alla Quadriennale di Roma del 1975 ed alla Biennale di Venezia del 1976. Sono gli anni in cui gli artisti inconsapevolmente cominciano ad assaporare le esperienze effettive dell’anonimato e del lavoro di gruppo, che viene documentato male dagli storici dell’arte di quell’epoca, proprio per una deficienza di riflessione in area strutturalista e post-strutturalista. Cosa succede agli artisti, compagni di strada di Jannini? Essi abbandonano gli “studi” per dedicarsi ad un contatto diretto con la gente, attraverso performance singole e azioni collettive, oppure con happening coinvolgenti e fortemente provocatori. Alla Biennale del 1976, Jannini si esibisce all’interno dei Giardini Napoleonici con una scultura nomade fatta di vimini e stoffe coloratissime a forma di pesce: una maschera eccentrica con la quale va in giro per Venezia, procurando indiscrezione e bizzarria tra la gente. Nel 1978, insieme a Silvio Merlino, viene invitato dalla galleria Pari e Dispari a partecipare al Festival di performances, musica e poesia. Jannini assembla una enorme pila di scatoloni e con essa insieme a Merlino, trasformato in uomo-uccello, si aggira per Cavriago. Nel 1979 partecipa insieme agli Ambulanti alla Biennale di Gubbio: nella Piazza dei Consoli insedia una “porta del gioco del calcio”, che fa da ambientazione ad un rituale impenetrabile e onirico. Nell’agosto del 1980 si conclude il ciclo napoletano. L’artista, nella piazzetta antistante al Museo Archeologico, pone in azione una delle sue ultime performance, rendendo complice la gente in un inintelligibile Gioco dell’equilibrio. La scena si trasforma in una performance-mediazione che passa da una propensione all’altra, da un’atmosfera del medesimo all’ulteriore, quasi come se con l’avvento del terremoto in Campania si chiudesse un ciclo. Jannini trasforma tutto il vissuto della città partenopea in una memoria da stimolare e da custodire.
Nel 1980 Jannini lascia Napoli per delle cause che sfiorano la biografia dell’artista Kurt Schwitters(7). Così come in una combustione violentissima, ripetutasi varie volte, il vecchio atelier del pittore dadaista fu riportato al sistema originario dei detriti, quello di Jannini a Capodimonte viene distrutto da un gigantesco incendio(8). In seguito, viene invitato in Austria, a Linz, a partecipare al Festival Textilgestaltung, dove si presenta con un’installazione realizzata con centinaia di triangoli colorati, gli stessi che, in una precedente esposizione, aveva collocato nella piazza S. Fedele di Como. È del 1982 invece un intervento sui vetri di una scuola comasca: un’immagine magica che si staglia nella sera richiamando una moltitudine di persone, un’intero paese in festa. Dal 1984 al 1987 inizia il ciclo dei cosiddetti Scudi. L’artista crea strutture leggerissime e forti con i vimini, che piega e modella con il fuoco, e su di esse tende stoffe dilatanti su cui imprime sabbia e colla. Nell’87 si trasferisce a Milano e apre lo studio nell’ex galleria di Franco Toselli. Nello stesso anno all’interno dell’esposizione Equinozio d’autunno, partecipa con i grandi scudi, Le Ombre dei Padri. Dal 1988 in poi comincia a patire lo charme di nuovi materiali e di nuovi oggetti che penetrano intensamente nelle sue nuove opere. Scompone e seziona pezzi di “integranti elettroniche”, di schede e microchip che scopre all’interno di macchine e computer in desuetudine, la sua ricerca si trasforma in una disseminata peregrinazione negli ambienti squallidi e periferici dell’elettronica che costellano la grande metropoli. Jannini si appropria di isolatori di porcellana, di cavi elettrici, di semafori, di bobine, e li assembla in lavori di piccole e grandi dimensioni. Nel 1990 a Venezia Jannini presenta un’installazione di forte impatto emotivo sul tema di Cartesio e nel 1993 porta a maturazione il tema dei Nidi di rondine, già esposti alla Biennale di Venezia del 1990. Nel 1996, insieme all’artista Giulio Calegari, dà vita al Convegno Convergenze: Arte - Scienza. È il punto d’inizio per un laboratorio permanente indirizzato ad una approfondita ricerca tra artisti sui temi più scottanti delle diverse discipline.
Nel corso di tutti gli anni novanta il lavoro di Jannini subisce una sorta di “trasparenza concettuale”. Nel 2000 gli viene assegnato il Premio d’Arte Lissone con l’opera “Well! Now help to get out of the wood”, realizzato con un suggestivo manto di microcircuiti e silicone. Nel 2001 espone piccole opere costituite da frutta artificiale, in parte tagliata, che nascondono all’interno un fibroso intreccio di microcircuiti. Nel 2002 l’artista espone una lunga enigmatica passerella di microcircuiti illuminati e ispirata al famoso quadro di Manet: Le dejeuner sur l’herbe. Jannini scandisce le estremità di questo segmento di luce verde con una mela tagliata, il cui interno è anch’esso invaso dalla tecnologia, ed un bastone per non vedenti. Nei recentissimi lavori, intitolati “Migrazioni nostalgiche”, siamo di fronte ad immagini calibrate e tese al raggiungimento di un equilibrio tra ironia e sentimento e che costituiscono un’apertura verso il territorio del racconto e degli orizzonti figurativi. Non è che Jannini si pone con uniformità verso “l’ecclettismo contemporaneo”, qui l’eclettismo sarebbe così una specie di girandola che accomuna e scompagna tutti gli artisti contemporanei. Può sembrare strano, ma vediamo un attimo in che modo Jannini tramite Cartesio giunge - da Napoletano - al congiungimento di ironia e sentimento. Anche il tratto archeologico è una specie di cifra comune a tanti altri artisti. L’artista visivo contemporaneo per sua natura non è in grado di stare al passo con l’innovazione tecnologica che depista anche il nostro presente, pertanto è inevitabile che egli si mostri come un contenitore memoriale del presente. La società tecnologica è quasi sempre passata, la velocità e la politica della tecnologia, come direbbe P. Virilio, smontano i tratti strutturanti del suo futuro. Questa è la ragione per cui tutti gli artisti visivi operano un insormontabile cortocircuito spazio-temporale tra passato e futuro. Ciò che invece in Jannini di gran lunga resiste è la sua lezione architettonica di scuola napoletana. Jannini porta con sé quella“filosofia del rotto” definita da Alfred Sohn-Rethel(5). Con un curioso articolo sulla “Frankfurter Zeitung” del 21 marzo 1926 intitolato non a caso “La filosofia del rotto”, il raffinatissimo studioso marxista Alfred Sohn Rethel scriveva che: “A Napoli i congegni tecnici sono quasi sempre rotti: soltanto in via eccezionale, e per puro caso, si trova qualcosa di intatto. Se ne ricava a poco a poco l’impressione che tutto venga prodotto già rotto in partenza”. Tale filosofia sembra essersi realizzata compiutamente in quel vero e proprio “luogo dell’immateriale” che sono le opere di Riccardo Dalisi, della Libera Scena Ensemble e delle azioni degli Ambulanti. Jannini, senza aiutare il tratto caratteristico di questa napoletanità, si mostra di fronte alla memoria tecnologica, con una prontezza de-costruttiva! In sostanza, utilizzando il vecchio principio “collage”, tanto caro alle avanguardie storiche, e che Benjamin riconobbe come metodologia comune a tutte le innovazioni tecniche degli artisti della prima metà del ‘900, affascinati dal montaggio cinematografico, il nostro napoletano come afferma Sohn Rethel, ritrova la sua poetica nell’idea cartesiana che “le riparazioni definitive ripugnano”. Proprio come scrive il filosofo tedesco: “nella città di Napoli gli strumenti della tecnica più sofisticata finiscono per assolvere le funzioni più semplici, per le quali non furono concepite. Completamente trasformati loro malgrado, risultano invece inefficaci per le loro finalità originarie”. Jannini non ha bisogno quindi di operare neanche un cortocircuito spazio-temporale, acquisisce quello che si de-struttura grazie al montaggio stesso dei derivati della tecnica. La sua filosofia post-cartesiana tiene comunque conto del metodo e di un assioma di costruibilità, in cui il rotto, ovvero il defezionante, appare come una forma di rappresentazione. Jannini, a partire dalle “Decartesiane”, sembra aver utilizzato il “discorso sul metodo” in chiave de-costruttiva, promuovendo in maniera visiva quella che potrebbe essere la progettualità “euristica” di Cartesio. Su tali basi, Cartesio enunciò quattro fondamentali regole per le tecniche della ricerca: l’“evidenza” (cioè la chiarezza e la distinzione di ogni contenuto del pensiero), l’“analisi” (per la quale ogni problema va risolto nelle parti più semplici), la “sintesi” (per la quale si passa dalle conoscenze più semplici a quelle più complesse), l’“enumerazione” (cioè la revisione del processo compiuto con l’analisi e la sintesi). Per via dell’importanza assegnata alla ragione nella fondazione dell’intero sapere, e per il ruolo assegnato all’esperienza, Cartesio potrebbe essere considerato il pensatore che è alla base del metodo artistico moderno, in cui si privilegia il “razionalismo”. La filosofia di Cartesio avvalendosi del dubbio in modo sistematico appare solo vicina al pensiero degli scettici, ma in realtà da essa si distacca perché il dubbio mantiene un carattere “metodico”, vale a dire non è fine a se stesso, ma è un procedimento finalizzato alla ricerca di un fondamento incontrovertibile di tutto il sapere. Nella classificazione delle idee, Cartesio differenziò poi tutte i modelli che contraddistinguono l’attività pensante in tre gruppi: le “idee innate” (quelle che paiono connaturate all’intelletto: ad esempio, le certezze a priori della matematica), le “idee avventizie” (quelle che sembrano venute dal di fuori, vale a dire le idee delle cose corporee e visibili), le “idee fattizie” (quelle formate dal soggetto ragionevole, come le idee di esseri immaginari). Diciamo che l’artista contemporaneo potrebbe essere un produttore di “costruzioni fattizie” che si alternano tra il vivo e il rotto in disuso della tecnica. Esse si spingono in una sorta di cangiulliana memoria, che sovviene tra la macchina da festa di Piedigrotta e il tratto avveniristico che ridisegna l’universo post-elettronico. All’interno della sfera complessa e variegata degli “equilibridi”, Jannini adottando i suggerimenti di Edgar Morin ha cercato di giocare al di là delle dualità. Infatti, non a caso la parola equilibridi, che costituisce la summa teorica dell’esperienza poetica di Jannini, parte da una sorta di autoritratto-performance in cui l’autore si fa fotografare mentre tenta di tenere in equilibrio il cappello sulla punta del naso. L’immagine sembra un commento - a dir poco post-dadaista - della congiunzione semiotica tra il desiderio di sfiorare l’equilibrio e quello di lambire “euristicamente” e “fattiziamente” il senso dell’ibrido. Scorrendo i capitoli del libro di Jannini è facile capire che egli si confronta con la nozione di : silenzio, di punto di svolta, immagine, cartesianesimo e de cartesianesimo, le cose, il punto di origine, così come abbiamo visto parlando della sua formazione, l’azione, il dialogo, la ricezione, la natura, la metropoli, ancora Napoli con l’Antro della Sibilla, le strutture su cui si appoggiano le forme di comunicazione, l’esoterismo, le emozioni, la memoria e le storie passate (trascorse). Tutto questo è tenuto in piedi da un desiderio di moltiplicare un’ibridazione semantica alla seconda, che si rifrange sul testo visivo come un bootstrap. Jannini, essendo portato a far confluire tutto il suo lavoro e la sua esperienza teatrale, performativa, architettonica e poi poetica e filosofica in una sorta di neo-concettualismo costruttivista ma simbolico, usa il tratto destinale dell’installazione come un lavoro che oscilla tra il monumentale e il minimale. Dentro questa confluenza installativa, egli immette tutte le caratteristiche bilaterali dell’installazione organica e artificiale, che spesso giocano tra natura e contraffazione. Ad esempio tenendo in considerazione il confronto con Tiezzi bisogna ricordare che per Equilibrio noi potremmo considerare lo Stato di un sistema la cui configurazione o le cui grandezze macroscopiche caratteristiche non variano nel tempo. In base al sistema considerato e al tipo di trasformazione che esso può subire, si parla di equilibrio termico, meccanico o chimico. All’interno delle scienze esatte, l’equilibrio può essere considerato la Costante che rappresenta la condizione di stabilità in una reazione chimica. Essa si ottiene calcolando il rapporto fra il prodotto delle concentrazioni delle sostanze formatesi nella reazione e il prodotto delle concentrazioni delle sostanze reagenti, ciascuna elevata a un esponente pari al coefficiente di reazione della rispettiva specie. Ma la spiegazione di equilibrio come metafora del valore espressivo può essere data dall’idea che ci sovviene dal dizionario di semiotica, ed in particolare dalle suggestioni che ha sviluppato l’indagine di Algirdas Julien Greimas. Secondo Greimas ogni struttura si situa in un livello di equilibrio; nel campo dell’azione espressiva, si ha equilibrio quando si innesca lo scambio tra le parti contraenti. Su questa idea di equilibrio, che per Jannini è una sorta di istallazione che cerca il contrappeso, il bilanciamento tra gli elementi innesca il paradigma dell’Ibrido. L’ibrido nell'ambito delle scienze biologiche è un individuo generato dall'incrocio di due organismi che differiscono per più caratteri ed ha due differenti significati. Il primo significato si riferisce al risultato di un incrocio tra due animali o piante di diversi taxa con alcuni sottocasi. Un’altra metafora di riferimento che potremmo giocare tra stato biologico e stato artistico è quello degli “ibridi intergenerici” (Ibridi tra i diversi generi). Naturalmente con lo sviluppo accentuatissimo delle possibilità della scienza e della tecnologia il secondo significato di ibrido si riferisce ad incroci tra le popolazioni, razze, cultivar o varietà botaniche. Questo secondo significato è usato in agronomia e zootecnia. In questi ambiti gli ibridi sono comunemente prodotti e selezionati, artificialmente, perché hanno caratteristiche desiderabili e non presenti o limitatamente presenti nella generazione genitoriale. A partire da qui, l’artista contemporaneo che cosa può aggiungere a ciò che già la scienza stimola e propone come materia ipercomplessa ed euristica? L’ironia e l’emozione, come ho più volte detto nel saggio sui Livelli di Coincidenza(9) e in quello sulla ricombinazione presente tra scienza ed immaginario.(10)
È l’artista stesso a chiudere il cerchio del suo discorso, raccogliendo intorno a questa poetica tutto il momento di de-cartesianizzazione: “la noia non mi interessa. Nelle mie opere riscontro la presenza di un ibridismo e di schemi coesistenti, elementi con caratteri eterogenei che si presentano in una mescolanza apparentemente arbitraria: frutta artificiale con chip, nidi di rondine con grondaie elettroniche […] Le cose che apparentemente sembrano distanti devono poter convivere in un nuovo equilibrio; anche se si tratta di un equilibrio stridente, o che tende all’ibrido. Per questa ragione, creando un neologismo, io parlo di equilibridi: cioè equilibri fluttuanti, sistemi provvisori che approdano al paradosso di una stasi in movimento [2001]”(11).
(1) Quando il critico dei Nuovi Nuovi teorizzava il cosiddetto “Barocco freddo”
(2) Equilibridi, 2007 pubblicato dalla Matteo Editore, il libro nel quale Jannini raccoglie pensieri riflessioni ed incontri sull'arte
(3) Difatti una delle più fantasiose leggende napoletane farebbe risalire il suo nome all'uovo che Virgilio avrebbe nascosto all'interno di una gabbia nei sotterranei del castello. Il luogo ove era conservato l'uovo, fu chiuso da pesanti serrature e tenuto segreto poiché da "quell'ovo pendevano tutti li facti e la fortuna dil Castel Marino".
Da quel momento il destino del Castello, unitamente a quello dell'intera città di Napoli, è stato legato a quello dell'uovo. Le cronache riportano che, al tempo della regina Giovanna I, il castello subì ingenti danni a causa del crollo dell'arcone che unisce i due scogli sul quale esso è costruito e la Regina fu costretta a dichiarare solennemente di aver provveduto a sostituire l'uovo per evitare che in città si diffondesse il panico per timore di nuove e più gravi sciagure
(4) Il Parco di Capodimonte è lo spazio verde più esteso della città di Napoli e si trova sulla piccola collina omonima a Nord della città, il "Capo di Monte". Il Parco contiene al suo interno la Reggia di Capodimonte, sede di una delle più importanti pinacoteche d'Italia con i quadri della collezione Farnese, che annovera al suo interno opere di molti artisti di primissimo piano, tra cui Simone Martini, Masolino, Masaccio, Botticelli, Bellini, Raffaello, Tiziano, Lotto, Correggio, Parmigianino, i Carracci, Bruegel, El Greco, Reni, Giordano. Nel Palazzo trovano posto anche la ricca Galleria dell'Ottocento e la Raccolta di Porcellane e Ceramiche della Real Fabbrica di Capodimonte.
(5) Vedi A. Sohn-Rethel, Napoli: la filosofia del rotto, a cura di S. Custoza, Napoli-Milano, Alessandra Carolà Editrice, 1991.
(6) Si veda qui il libro di Enrico Crispolti che si richiama alla linea di Cossutta, Stefanini, Zangheri, Giuseppe Vacca, Arti visive e partecipazione sociale. 1 Da Volterra 73 alla Biennale 1976, 1-25, De Donato editore, Bari, 1977, in particolare l’introduzione e poi da p. 21 a p.304.
(7) La sua creazione più nota è probabilmente il Merzbau, detta anche dallo stesso artista Cattedrale della miseria erotica, esistita tra il 1932 e il 1944, quando venne distrutta dai bombardamenti. All'interno di questa costruzione, che lentamente si fondeva con la sua stessa casa, Schwitters dedicò ad ognuno dei suoi amici una cappella che custodiva una specie di reliquia, o meglio un oggetto appartenuto a quella persona, come ad esempio mozziconi di sigaretta, punte di matita, pezzi di unghie... Un'opera che volutamente non concluse mai; si tratta infatti di un work in progress, di un'installazione e di una performance insieme, che così sconvolge, destabilizza, non giungendo ad un punto fermo. Tutti quelli che dopo di lui si sono cimentati con l'arte dei rifiuti hanno dovuto fare i conti con il genio surreale di Schwitters.
(8) L’incendio avvenne nel suo studio di allora, un ex sanatorio, situato in una zona ancora verde a ridosso del nuovo quartiere San Rocco, e distrusse tutte le opere di quel periodo, frutto di un laboratorio creativo che coinvolgeva i ragazzi di quel quartiere di periferia.
(9) Rimando al mio saggio di post-fazione a Livelli di Coincidenza di Vito Riviello, pubblicato da Campanotto editore, Udine, 2005.
(10) In Gabriele Perretta, La sfida della ricombinazione, in AA.VV., La letteratura nell’era dell’informatica, a cura di C. Milanese, Bevivino, Milano, 2008.
(11) Equilibridi, in Equilibridi di E. Jannini, op. cit., p.99.