[Exibart 26 luglio 2016]
Sapete chi era Ada Augusta, contessa di Lovelace? No, non è un personaggio di una delle tante stucchevoli telenovele in costume. Era la figlia legittima di Lord Byron con la passione per la matematica. È passata alla storia (e che storia!) per aver dedicato molto del suo tempo nel perfezionare una straordinaria macchina ideata da Charles Babbage. Insieme a quest’ultimo, anch’egli matematico e filosofo britannico, la contessa è annoverata tra i primi ideatori di un dispositivo per il calcolo differenziale e analitico: in una parola, i due progenitori del computer. Volendo tralasciare l’epopea leonardesca e le mirabili invenzioni, e rivolgere uno sguardo più ravvicinato, risulta appassionante riflettere su uno dei temi che hanno sempre affascinato gli artisti: vale a dire il rapporto tra arti visive e mondo della scienza e della tecnica.
Per questo ci viene incontro la ricerca di Valerio Dehò, noto critico d’arte italiani che si è distinto per la ventata di aria fresca portata al Kunst Merano Arte e per le sue svariate iniziative artistiche tuttora in corso. Arte ex machina. Arte, scienza e tecnologia: estetica di un’utopia, fresco di stampa per le Edizioni Christian Marinotti, è un libro da leggere. Si parla di macchine, si, ma non solo. Si affronta questo tema a partire dal clima ottocentesco, dal mito del progresso, generato dalle correnti calde del Positivismo, come se a queste macchine e alla scienza l’uomo affidasse la sua salvezza terrena e celeste. Un entusiasmo che nei futuristi troverà i rappresentanti più convinti, fautori di quel mito della modernità, accesi da impeti dionisiaci e profeti di una nuova società meccanica. Un mito, però, che perderà il suo smalto poiché all’interno della cultura del novecento s’insinuerà il tarlo del sospetto, dopo il lungo viaggio al termine della notte che si conclude con la prima grande guerra.
Non a caso Valerio Dehò si sofferma sul celebre film di Fritz Lang, su quel Metropolis del 1926, la cui portata profetica ha fatto riflettere più di una generazione, e più di mille trattati sul totalitarismo. E dunque il rapporto ambivalente dell’uomo con la macchina viene ripercorso da Dehò che analizza la potenza interpretativa dell’arte, osservandone gli slanci, le riuscite, i tentativi ed i fallimenti prodotti nell’arco di tutto il Novecento fino ai nostri giorni. Un lungo percorso artistico in cui questa ambivalenza si è manifestata nelle espressioni più riuscite, come negli assemblage meccanici di Jean Tinguely, produttori di uno sferragliare giocoso, risalenti ai primi tentativi infantili, a quelle ruote idrauliche e sonore approntate lungo i torrenti della sua terra. Un abbandono al macchinico, al gioco – come scrive Dehò – che “diventa ancora una volta fonte di conoscenza”. Come, del resto, anche nel caso di Bruno Munari con le sue celebri macchine inutili o, per altri versi, quando si pensa al “rapporto dolce” che Calder instaura con l’arte, con i suoi Mobiles, quasi un omaggio ante litteram alla leggerezza perseguita da Italo Calvino.
Si passa poi alla fase dell’Arte cinetica, al concetto di ripetitività e prevedibilità, applicato al gioco della creazione all’interno del quale il fruitore inizia ad assumere un ruolo attivo. È la “fine” dell’oggetto feticcio, il crollo dell’aura, come si evince dalle tesi del Gruppo N. Arte programmata, democraticamente offerta sotto forma di esperimenti percettivi.
Ma l’avvento del computer – dopo gli innumerevoli passaggi tecnologici che, immaginiamo, avrebbero fatto la gioia di Ada Augusta e di Babbage – segna la svolta. Ed è svolta di civiltà, benché il rapporto bipolare con la macchina, ovvero la super macchina per eccellenza, sussiste; anzi si accentua, nel bene e nel male. E qui gli artisti si danno da fare per affiancare la propria creatività alle potenzialità della cosiddetta macchina stupida. Arriviamo alla Computer art. Ma si va oltre. Il processo è inesorabile poiché l’avvento dell’elettronica si appropria della macchina. L’idea, il concetto di immagine, deve essere riformulato. I nuovi mezzi, prodotti da un’accelerazione tecnologica senza pari, conducono sui sentieri della smaterializzazione. Assistiamo ad un mutamento paradigmatico che si svolge giorno dopo giorno, sotto i nostri occhi. Lyotard a Parigi nel 1985 con Les Immateriaux coglie nel segno. Come dire che il mutamento è forte, va compreso il nuovo rapporto con la realtà sociale, la cui definizione sfugge ai canoni dell’antropologia e sociologia. Il mondo etereo che trasuda dai pixel, le possibilità insite nell’hardware, stimolano l’immaginazione, letteraria ed artistica. Si viaggia in direzione di Cyberia verso i paradisi delle realtà virtuali. Il concetto di Posthuman di Jeffrey Deitch – argomenta Dehò – mette in crisi “il solito inutile umanesimo di seconda mano che rimpiange l’unità dell’uomo messa in crisi dalla macchina elettronica”. Siamo immersi nell’ “Iconosfera” (termine coniato da Gillo Dorfles nel 1965) e non c’è possibilità di sottrarsi, qualcosa è già avvenuto e sembra che tutti possano essere artisti. Riaffiorano i rischi di una continua vaporizzazione dell’essere, di una perdita d’identità profonda. La super tecnologia – pare suggerirci l’autore di Arte ex machina, professore di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna – o va rifiutata o va assunta come punto di partenza. Bisogna interagire, con sapienza, come ha fatto Myron Krueger, vero pioniere dell’arte interattiva. Per non parlare della parabola felice di Mariko Mori che, come si sa, si avvale delle migliori collaborazioni scientifiche per la realizzazione delle sue opere. Sogni ad occhi aperti, versioni armoniche-religiose della tecnologia applicata.
Molto belli gli ultimi capitoli sulla Net Art e Generative Art. Vere sorprese per il presente-futuro dell’arte, in cui l’autore pone in giusto rilievo artisti come Casey Reas, Hannes Kock, Tabor Robak, Chris Milk.