[Exibart 8 gennaio 2013]
«Sembra che il ruolo dell’artista sia quello di indagare e di incitare, rischiando la distruzione, il prezzo da pagare per aver violato una terra proibita. Pochi sfuggirono all’annientamento e tornarono indietro per raccontare quanto accaduto». Con questa incisiva epigrafe, tratta dagli Scritti sull’arte di Mark Rothko, Silvano Petrosino (docente di teorie della comunicazione e filosofia morale presso l’Università Cattolica di Milano e Piacenza) apre il suo penetrante saggio Abitare l’Arte. Heidegger, la Bibbia, Rothko (Interlinea Edizioni, 2011, euro 10).
C’è un fattore fondamentale nell’esperienza umana – sostiene Petrosino – che può sfuggire ad una presa di coscienza radicale e che in Essere e Tempo Heidegger ha indagato con particolare perizia: il fatto che noi tutti, e tutto ciò che esiste, siamo “passivi” rispetto alla nostra esistenza, poiché di quest’ultima non abbiamo potuto decidere. È da questo punto nodale, imprescindibile,che Petrosino parte per tracciare la linea di un sottile percorso teso a far emergere la posta in gioco, il senso della nostra umana avventura e il rapporto che tutto ciò ha con l’arte. L’uomo, sottolinea l’autore di Abitare l’Arte, pur non essendo «signore del suo essere proprio», non per questo si ritiene schiavo della sua esistenza e dell’angoscia. L’uomo “abita” la sua esistenza e la caratterizza con il costruire, con il “coltivare” e, ancor più, con l’intervenire nell’ordine della creazione. Egli è chiamato a “custodire” ciò di cui non è autore, innanzitutto il suo stesso essere: ciò lo porta a sentirsi “abitato” da un’alterità irriducibile e non inquadrabile in nessuno schema a priori. L’altro, argomenta Petrosino, citando il Derrida del Psychè. Inventions de l’autre, «è ciò che non si inventa mai e che non avrà mai atteso la vostra invenzione».
Dunque, c’è qualcosa che sfugge ad ogni invenzione, che si sottrae pure alla straordinaria facoltà dell’uomo di immaginare, sognare, progettare. La consapevolezza di questa alterità che ci abita, e che alle coscienze più sensibili si manifesta con un senso di profonda inquietudine, apre una faglia nel quotidiano, un possibile accesso all’esplorazione di una terra proibita (per riprendere le parole di Mark Rothko) all’interno della quale l’artista pone il suo occhio indagatore, pronto a carpire, a “scorticare” la realtà, e a custodire ciò che questo suo “fare” gli consente. Pertanto la “grande arte” – precisa Silvano Petrosino – cioè quella che si pone al di là di ogni divertissement, proprio perché intrinsecamente improntata al fare «o più correttamente l’arte autentica (anche quella che non ha mercato e non viene celebrata/idolatrata nei musei o mercificata nelle gallerie d’asta), è uno dei luoghi per eccellenza all’interno del quale il soggetto vive con intensità l’esperienza dell’essere abitato da un’alterità irriducibile, luogo in cui egli non censura o misconosce ciò che non domina».
L’artista ha le mani in pasta, dunque: deve obbligatoriamente “venire alle mani” con la materia; deve intervenire, e il suo fare non si risolve nell’illusoria esaustività del solo “pensiero”. Egli è “caparbiamente un abitante”: nulla di più lontano, quindi, dallo stereotipo dell’artista fuori dalla realtà.
L’arte – prosegue il filosofo, riferendosi alle tesi di Blanchot e Lacan – è ineluttabilmente indirizzata all’organizzazione testuale, vale a dire all’opera. L’artista stesso è destinato a lavorare e abitare sempre “ai margini” ed il viaggio che compie nella terra proibita si prospetta spesso sull’orlo dello smarrimento o del fallimento.
Da una simile impresa tornano soltanto coloro che si sono dati una grande disciplina. Innanzitutto per non farsi distruggere da ciò che, abitandoli, li sovrasta. Inoltre, tutti coloro che si spingono nei territori della grande arte devono equilibrare le forze propulsive, talvolta annichilenti, del dionisiaco. E quindi l’opera, l’organizzazione testuale, si presenta come una strategia di “contenimento”, ma anche di rivelazione, come esplicitamente emerge dalle parole di Mark Rothko: «Va ricordato che quanto si può strappare agli Dei dipende da stratagemmi, i quali non possono essere né trasmessi né appresi, perché non ci si può prendere gioco due volte allo stesso modo degli Dei… Chiedersi cosa possa essere strappato e in che modo possa essere reso disponibile perché, come un gioiello rubato di gran valore, può essere esposto solo sotto alcuni travestimenti e condizioni»