Recensioni

Federico Vercellone
Dopo la morte dell’arte
Il Mulino, 2013 - ISBN 9788815244260

[Exibart 24 aprile 2013]

C’è chi dispone un’autopsia nei confronti del concetto hegeliano di “morte dell’arte”, non pago di quanto si è elaborato in questi anni di dibattito filosofico. Estratta la lente, si ritorna a riesaminare il cadavere o, per essere più precisi, si riesaminano le “morti senza cadaveri” iniziate nell’Ottocento. È quanto sostiene Federico Vercellone, docente di Estetica all’Università di Torino,  nell’introduzione al suo saggio Dopo la morte dell’arte. Si tratta di “omicidi simbolici”, di morte dell’uomo, di Dio o dell’Arte, annunciati a suo tempo da figure come Dostoevskij, Nietzsche o Max Stirner. Hegel intende la “fine dell’arte” come amara constatazione dell’assenza di un ethos comune all’interno della nostra cultura occidentale, che fu invece della Grecia di Pericle, epoca in cui l’Arte si elevò a «condizione universale del mondo», assumendo una posizione centrale e connettiva, dove religione e legge costituivano una unica cosa.
Si evince dalla disamina di Vercellone che la cultura artistica occidentale, svincolata da quell’ethos, sta da tempo cercando di sperimentare un lento processo di riappropriazione della sua ragion d’essere, mossa, forse, anche da inconscia nostalgia per quell’epoca eroica. Ma l’avvento del mondo borghese moderno, ed oggi la pressione di un capitalismo selvaggio, hanno ulteriormente lacerato il tessuto sociale, determinando il sorgere di forti antitesi. Prime fra tutte, tra i principi dell’individualismo e quelli della collettività, che emergono dalla riflessione di Federico Vercellone, come elementi costanti nei corsi e ricorsi della parabola della storia dell’arte e, di riflesso, all’interno della filosofia dell’arte, che partendo da Platone, sviluppa le sue tesi fino ai nostri giorni con Arthur Danto e Hans Belting.
Il saggio di Vercellone apre dunque la ricerca a molteplici interrogativi, a partire dal destino dell’arte. Si chiuderà in sé stessa, esprimendo una pura soggettività che sopravvive nel recinto della sua istituzione? O sarà un’arte che si riaggancia, con nuovi vincoli, alla natura e al mondo? 
La potenza eternizzante dell’arte – argomenta l’autore, riferendosi al primo Nietzsche – è venuta meno e con essa anche la relazione che l’uomo crea tra il micro e il macrocosmo. Dunque una scissione ontologica all’interno di quella relazione tra cielo e terra, tra i divini e i mortali, splendidamente stigmatizzati nel concetto di “quadratura” da Heidegger. 
Al primato metafisico della bellezza, dell’armonia, si è sostituita la deriva dell’estetismo, che ostenta il volto di un’arte autonoma, chiusa nella sua «paradossale assolutezza», afferma Vercellone, e che fu il sogno di una delle due anime del Romanticismo. Eppure già Schelling e Schlegel erano proiettati verso una nuova mitologia basata anche sulla ragione e sul sapere. Con ciò, si è soltanto agli albori della modernità, al preludio delle molteplici e antitetiche strade che può imboccare l’arte. Per alcuni – sostiene l’autore – non si tratterà del tentativo di «una ingenua risacralizzazione dell’arte», bensì di un nuovo mito basato sulla potenza dell’apparato «tecnico-razionale che crea attorno a sé una comunità». Per molti versi si approderà alla “mass art”, al cinema di consumo, al fumetto.
Vercellone sottolinea i passaggi salienti di questo processo iniziato dai romantici, sollecitati dalle meditazioni hegeliane, evidenziando, più che la morte o la fine, la trasformazione dell’arte e la sua fruizione. Il filosofo rivolge uno sguardo alle tesi di Benjamin e Adorno, emblematiche nelle loro reciproche e dialettiche contraddittorietà. Da un lato un’arte proiettata verso una illimitata riproducibilità, che impatta la realtà; dall’altro, un’arte che teme l’avanzata tecnologica considerandola responsabile di una potenza distruttiva che Vercellone, facendo sue le parole di Adorno, definisce «vettore dell’universale illusionismo che caratterizza le società avanzate tardomoderne». Dunque l’antitesi si gioca tra la grande Arte, con la sua intrinseca logica mitopoietica, e l’insostenibile leggerezza dell’arte di massa, dei drammi della mercificazione e della spettacolarità. E qui risuona ancora viva la voce di Guy Debord. Dunque, antitesi che si riproducono di decenni in decenni, che cercano una risposta nelle declinazioni del linguaggio artistico e nel dibattito filosofico. Vercellone approfondisce anche la figura di Kosuth e si chiede se l’idea di quest’ultimo che «l’arte, invero, esiste per sé stessa» sia sufficiente a chiudere la questione. Che invece, secondo l’autore, rimane aperta, legata ad un panorama culturale che cambia di continuo, occupato da quel processo di estetizzazione che il filosofo considera responsabile di una «sorta di derealizzazione del mondo». Eppure c’è chi, come Artur Danto e Hans Belting, a conferma delle antitesi sopra accennate, sugli stessi temi, operano un’opposta valutazione, riconoscendo alla nostra contraddittoria cultura la possibilità di un nuovo mutamento.


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