[Exibart 5 giugno 2012]
A che serve il critico d'arte quando è il contesto espositivo che sostiene le quotazioni degli artisti. C'è un'area dismessa, nella nostra concitata contemporaneità artistica - quella della critica d'arte - dove, giorno dopo giorno, vengono depositate le inutili elucubrazioni para scientifiche contenute nei cataloghi, nelle brochure e quanto altro ruota attorno al cosiddetto sistema dell'arte; un mondo, quest'ultimo, ipertrofico, all'interno del quale l'opera nasce già come genere di consumo (Thomas McEvilley).
La critica d'arte è crollata sotto il peso insopportabile di un linguaggio consunto arrivato al termine della notte, fatta di banali polemiche mediatiche, di categorie concettuali abusate o di finte divulgazioni, come Lo potevo fare anch'io, di Francesco Bonami, tanto per fare un esempio. Insomma, un The end of Art Theory, per dirla con Victor Burgin, o tutto al più una post-produzione, una manipolazione di dati, come aveva affermato a suo tempo Nicolas Bourriaud parlando dell'arte di fine Novecento. Ed è quanto riporta Stefania Zuliani nel suo brillante saggio: Esposizioni. Emergenze della critica d'arte contemporanea, uscito quest'anno per i tipi della Bruno Mondadori. Studiosa dei mutamenti che hanno segnato le relazioni tra arte, critica e spazi espositivi, Zuliani affronta con nerbo e sistematica lucidità le questioni più cogenti che riguardano il movimento del pensiero critico nell'attuale panorama post-storico. Le sue indagini mettono in luce le illusioni e i rischi di un pensiero critico che gira a vuoto.
In un presente, come il nostro, caratterizzato dalla perdita della soggettività piena, l'io dell'artista è messo al servizio dell'Artworld disperdendosi nell'infinito pulviscolo della spettacolarizzazione o – per dirla con le parole di Arthur Danto – della vetrinizzazione dell'arte.
Non più strutturata sui pilastri dell'high modernism, l'arte, e la critica, si sono geneticamente modificate: ancor più, piegate, come giunchi, all'espansione del mercato e alla inarrestabile avanzata del curatore. Quest'ultimo, protagonista indiscusso della scena artistica contemporanea – continua Zuliani, analizzando, ad esempio, la figura emblematica di Harald Szeemann – ha assorbito il male e il bene di siffatta mutazione. Attorno a questa complessa figura che avanza, a partire già dagli anni sessanta, si addensano tutte le caratteristiche del potere decisionale. E nel caso di Szeemann – precisa Zuliani – un potere, però, che si fa energia rigenerativa, aperta al dialogo, inseguitrice di un sogno ad occhi aperti. Il curator inteso non come semplice organizzatore di mostre, ma complice del processo creativo; fino a giungere a concepire l'ideale utopico di una progettazione di un'esposizione non più come ad un lavoro individuale ma come ad un processo collettivo.
Dunque il critico d'arte cambia pelle – sembra suggerirci Zuliani – e il pensiero che produce – nei casi migliori, come Szeemann – è frutto di relazioni e non di sola contemplazione. Pertanto, nell'epoca post-auratica, la dimensione critica si esplica con convegni, pubblicazioni, dibattiti: insomma curatioral studies (modello Obrist) per riavviare una pratica del discorso, le cui radici sono rintracciabili facilmente in quell'Istitutional critique di Haacke, Buren, Asher, Broodthaers. Una pratica del discorso, ad esempio, che oggi non può non tenere conto della revisione totale del concetto di museo.
Citando le parole di Rosalind Krauss, Zuliani sottolinea come oggi molti musei siano divenuti nient'altro che brand, etichette esportabili in lussuoso franchising. Senza attardarsi troppo su facili chaier de doleance, la ricercatrice fa sentire la sua voce a proposito del museo a venire, nonché sulle nuove frontiere necessarie per l'arte pubblica, o sulla nuova monumentalità della scultura. E ancora più importante è l'accento che pone sulla necessità di riallacciare i fili tra arte e critica: un passaggio obbligato – afferma – per riconnettere il pubblico alla dimensione creativa e partecipativa dell'arte. Insomma, giocare a riaprire, come da tempo va sostenendo Carla Benedetti scrivendo di letteratura. La critica – conclude Zuliani nella sua introduzione – può produrre dispositivi teorici improntati alla flessibilità, mettendo in primo piano anche le responsabilità degli artisti, insieme ai quali è ancora possibile affrontare un viaggio di continue scoperte e verifiche. Come ebbe a teorizzare lucidamente Filiberto Menna, una Critica della critica, poiché “l'atteggiamento autoriflessivo rappresenta il fondamento essenziale di una nuova problematica in cui arte e critica si riconoscono solidali: entrambe muovono infatti da quel postulato per mettere in crisi ogni forma di referenzialismo ingenuo riconducibile a uno schema gnoseologico naturalistico”.